“The tomb of Tutankhamon”: tutta l’emozione dietro una scoperta

Una scoperta è sicuramente uno dei momenti più emozionanti nella vita di un archeologo. Se poi si tratta della prima tomba intatta mai ritrovata di un antico Faraone, allora l’entusiasmo si mescola alla responsabilità di maneggiare, senza danneggiarli, oggetti a volte molto fragili. Questo (e molto altro!) ne “La scoperta della tomba di Tutankhamon” di Howard Carter.

Con l’incondizionata adesione del mio collaboratore, Mr. Mace,
dedico questo resoconto della scoperta della tomba di Tutankhamon
alla memoria del mio caro amico e collega,
Lord Carnarvon,
scomparso nel momento del suo trionfo.
Senza la sua instancabile generosità e il suo costante incoraggiamento,
il nostro lavoro non sarebbe mai stato coronato dal successo.
La sua competenza nell’arte antica è stata raramente eguagliata,
e i suoi sforzi intesi ad ampliare le nostre conoscenze nel campo dell’egittologia
godranno sempre, nella storia, del massimo rispetto.
Il suo ricordo rimarrà per me incancellabile.
H. Carter, “La scoperta della tomba di Tutankhamon”, White Star S.p.A.
Copertina del testo.
Fonte: www.ibs.it

L’archeologo inglese Howard Carter nacque a Kensington il 9 maggio 1874.

Il 4 novembre 1922 è stato forse uno dei giorni più importanti della sua vita.

Quella mattina, infatti, arrivando allo scavo nella Valle dei Re si accorse che c’era qualcosa di strano.

I lavori erano fermi: doveva essere accaduto qualcosa di straordinario. Fui salutato subito con l’annuncio che, sotto la prima baracca demolita (quelle dei costruttori della tomba di Ramses VI, n.d.r.), si era trovato un gradino tagliato nella roccia. Sembrava troppo bello per essere vero…

Da quel momento in poi si sono susseguiti tutta una serie di istanti che passeranno alla storia ed emozioni contrastanti.

In quegli anni si pensava che nella Valle dei Re non ci fosse più nulla da scoprire. Quindi, senz’altro, fu l’entusiasmo di aver scoperto, per la prima volta, la tomba intatta di un antico Faraone il sentimento principale.

Poi, però, superati i primi frenetici momenti, l’eccitazione lascio il posto alla consapevolezza del “compito eccezionale che avevamo dinanzi e di quali responsabilità comportava. Questo non era un normale ritrovamento, da esaurire in una comune stagione di lavoro; e neppure c’era un precedente che ci indicasse il modo di affrontarlo. La scoperta era straordinaria, al di là di ogni esperienza, e sul momento sembrava che le cose da fare superassero ogni umana possibilità.

Infatti, dopo aver visto le oggi famose cose meravigliose da un piccolo foro, al lume di una candela, Carter si rese conto che, da archeologo e studioso, aveva il dovere di salvaguardare quanto accumulato in quelle stanze millenni prima.

Fu così che mise in moto un vero e proprio metodo scientifico di approccio agli scavi (e ai reperti!), usato ancora oggi.

Bisognava innanzitutto disegnare una pianta delle stanze, documentare fotograficamente ogni cosa e, prima di spostarli, restaurare gli oggetti più fragili.

Per renderlo possibile, riuscì a mettere insieme una grande squadra di professionisti: dal fotografo Harry Burton, ad Hall e Hauser, disegnatori della spedizione del Metropolitan Museum, fino al chimico Lucas, in permesso prima di andare in pensione. Per non parlare poi di Alan Gardiner che si impegnò ad esaminare tutte le iscrizioni che sarebbero stare trovate.

Tutto questo (e molto altro!) è racchiuso ne La scoperta della tomba di Tutakhamon di Howard Carter, edito da White Star S.p.A. con National Geographic nella collana “I Classici dell’Avventura”.

Un testo particolare dove, a tratti, l’archeologo lascia il posto all’uomo e mette a nudo tutto lo sconforto per gli insuccessi dei primi anni e l’entusiasmo per il successo più grande.

Il testo serve inoltre a Carter per mettere a fuoco quanto realmente accaduto, con ordine e metodo, così da comprendere a pieno la portata di quanto scoperto.

E così la scientifica descrizione degli oggetti rinvenuti e di come siano stati portati fuori dalla tomba è affiancata da trepidanti momenti: come il restauro, prima di rimuoverli, di sandali a perline con il filo ormai quasi totalmente marcito.

O quello di mazzi di fiori lasciati lì migliaia di anni prima per il Faraone Bambino.

Una ghirlanda di fiori è anche la protagonista di un pezzo di altissimo romanticismo.

Uno degli omaggi floreali.
Reproduced with permission of the Griffith Institute, University of Oxford

Infatti, quando Carter e gli altri aprirono il coperchio di granito che conteneva i sarcofagi del Faraone Tutankhamon si trovarono di fronte ad uno spettacolo strabiliante. Il coperchio di una cassa antropomorfa con le decorazioni in bassorilievo e la testa e le mani (che impugnavano il bastone e il flagello) scolpite in tutto tondo.

In mezzo a tanta magnificenza, un semplice omaggio colpì gli studiosi: un mazzo di fiori.

Forse però la cosa più commovente, nella sua umana semplicità, era la minuscola ghirlanda di fiori disposta intorno ai due emblemi, e ci piace pensare che proprio questo sia stato l’estremo saluto recato dalla fanciulla, ormai vedova, a suo marito, il giovane rappresentante dei due regni.

Un impressionante esempio di come l’amore e il lutto non siano mai cambiati, nemmeno dopo tremila anni!

Non poteva ovviamente mancare un capitolo dedicato ad uno dei maggiori “problemi” che ha afflitto Carter durante le stagioni di scavo: i turisti e i giornalisti.

Cercando di spiegare anche le sue ragioni.

Secondo lo studioso infatti, far visitare la tomba appena scoperta a chiunque comportava non solo continue interruzioni e quindi perdita di importanti ore di lavoro, ma anche un pericolo per i reperti ritrovati.

E non solo per il cambio delle condizioni dovuto al passaggio dalle stanze sigillate alla temperatura esterna; sarebbe bastato infatti un movimento brusco, un passo falso nella stanza angusta, dovuto anche al comprensibile entusiasmo del visitatore in questione, per far cadere a terra un oggetto, danneggiandolo irreparabilmente.

Ecco, quindi, anche tutta l’amarezza di un uomo, uno studioso che si rende conto dell’incomprensione del mondo circostante e dell’enorme responsabilità che il destino gli ha concesso.

Eppure l’archeologia ha tutto il diritto di essere considerata alla stregua di ogni altra forma di ricerca scientifica, e persino, oserei dire, della sacra scienza del business. Perché, dunque, per il solo fatto di lavorare in zone remote anziché in un affollato centro urbano, dovremmo essere zotici, se protestiamo per le continue interruzioni?

Speriamo che Howard Carter, ovunque egli sia, possa vedere la considerazione che hanno oggi l’archeologia, gli archeologi e, soprattutto, i reperti ritrovati.

È infatti grazie a lui, all’importanza che dava alle sue scoperte, nonché al senso di responsabilità e riverenza che permeano ogni singola parola di questo testo, se ancora oggi, dopo ben 100 anni, il suo è l’approccio agli scavi universalmente usato.

Howard Carter e Tutankhamon.
Reproduced with permission of the Griffith Institute, University of Oxford

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Elena Cappannella

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