L’antica arte della mummificazione

L’integrità del corpo del defunto, negli anni successivi alla morte, era uno degli aspetti più particolari ed affascinanti dell’antica cultura egizia. Fu per questo motivo che idearono una tecnica complessa e, per certi versi, ancora in parte sconosciuta: la mummificazione.

Salute a te padre mio Osiride! […]

Questo mio corpo non deve svanire, poiché io sono integro […],

non marcisco, non mi gonfio, non mi decompongo e non mi trasformo in vermi.

Io sopravvivo […],

non sono svanito con i miei visceri[…],

il mio capo non si è separato dal collo […].

Il mio corpo perdura, non va in rovina, non svanisce in questa terra, per sempre.

(Libro dei morti, cap. 154, in Hornung 1979, pp.331-334)

Ricostruzione della mummificazione. Mostra “Tutankhamon: viaggio verso l’eternità” a Firenze
Ph. Elena Cappannella

Perchè era importante la mummificazione?

Nell’antico Egitto era fondamentale l’integrità del corpo dopo la morte per permettere all’anima di vivere ancora nell’aldilà (Duat).

Tre erano le parti di cui era composto un corpo: il ka, una sorta di “doppio” della persona, che rimaneva nella tomba e quindi aveva bisogno delle offerte, il ba, più vicino al nostro concetto di “anima”, che poteva uscire dalla tomba e ritornare e, infine, l’akh, la parte che avrebbe affrontato la pesatura del cuore (psicostasia) per poter poi raggiungere la Duat.

L’antica arte della mummificazione sembra derivare da un processo naturale già noto durante l’epoca predinastica.

Sepoltura predinastica al Museo Egizio di Torino
Photo: Elena Cappannella

Molto conosciuta, infatti, è la mummia conservata al Museo Egizio di Torino dove è evidente questa modalità d’imbalsamazione. I corpi venivano seppelliti in una fossa e la sabbia ed il caldo del deserto favorivano la disidratazione.

Quando poi il culto dei morti iniziò a prevedere la costruzione delle tombe, gli antichi Egizi dovettero “inventare” una nuova tecnica che sfruttasse però le caratteristiche della mummificazione naturale.

Il processo di mummificazione

Il processo, che raggiunse la perfezione durante la XVIII dinastia, poteva avere durata e complessità differente in base al ceto sociale del defunto; nel caso dei Faraoni, la mummificazione veniva effettuata in circa 70 giorni.

I sacerdoti, che prendevano parte alle operazioni, non solo dovevano sapere tutti i rituali necessari, ma anche possedere una buona conoscenza di anatomia umana.

Durante tutte le fasi del processo, il capo degli imbalsamatori indossava una maschera dalla testa di sciacallo, impersonando così il dio Anubi che, come narra la leggenda, avrebbe presieduto all’imbalsamazione rituale di Osiride.

Dio Anubi-Mummificazione –La Piramide di Montefiascone
Ph. Elena Cappannella
L’eliminazione del cervello

La prima fase di questo rituale prevedeva l’eliminazione del cervello che, considerato inutile, veniva rimosso con un particolare strumento uncinato dalle narici. Tale operazione era molto rischiosa, in quanto si poteva sfigurare facilmente il defunto.

L’asportazione degli organi interni

Attraverso un taglio nell’addome, venivano poi tolti anche gli altri organi interni, che avrebbero potuto accelerare il processo di decomposizione.

Solo il cuore del defunto veniva lasciato all’interno, perché sede del pensiero e dell’anima.

Gli antichi Egizi credevano, inoltre, che tale organo avrebbe preso parte alla psicostasia durante il quale veniva posto su un piatto di una bilancia. Sull’altro una piuma, simbolo della dea Maat.

Se entrambi avevano lo stesso peso, il defunto veniva considerato un uomo giusto e poteva raggiungere l’aldilà, mentre se il cuore fosse risultato più pesante della piuma sarebbe stato divorato da un terribile mostro; così, la sua anima sarebbe scomparsa per sempre.

I vasi canopi

Gli altri organi venivano invece mummificati separatamente e conservati in particolari contenitori chiamati vasi canopi, introdotti poi in una cassa e sepolti insieme al corredo funebre.

Vasi Canopi al Museo Egizio di Torino
Ph. Elena Cappannella

Ognuno conteneva un particolare organo e rappresentava un figlio di Horus:

Duamutef, con testa di sciacallo, proteggeva lo stomaco;

Imset, con testa umana conteneva il fegato;

Hapi, con le sembianze di un babbuino, custodiva i polmoni;

Qebehsenuf, con testa di falco, proteggeva l’intestino.

In epoca tarda, gli organi interni mummificati venivano reintrodotti nel corpo ma, anche se apparentemente inutili, i vasi canopi continuarono ad essere deposti nelle tombe.

I quaranta giorni nel natron

A questo punto gli imbalsamatori ricoprivano interamente il cadavere con un particolare sale, il natron, nome che probabilmente deriva dal suo luogo d’origine, i laghi alcalini di Wadi El-Natrun a circa 135 chilometri da Il Cairo.

Questa fase aveva lo scopo di eliminare tutta l’umidità dal corpo e, in effetti, trascorsi circa 40 giorni, i tessuti risultavano totalmente essiccati ma, come giusto che fosse, erano ancora riconoscibili i lineamenti umani.

Dopo aver lavato via tutti i residui di natron, la cavità addominale veniva riempita con mirra, cannella, paglia, stoffa ed altre imbottiture, per ridare al corpo una forma naturale. L’addome era poi ricucito e l’ovvia ferita coperta con un amuleto, l’occhio di Horus.

Il bendaggio – L’ultima fase della mummificazione

A questo punto si poteva procedere con l’ultima fase del processo di mummificazione: il bendaggio. I sacerdoti avvolgevano con molta attenzione tutto il corpo usando bende di lino impregnate di resine; in alcuni casi le dita delle mani e dei piedi venivano bendate singolarmente prima di avvolgere l’intero arto.

All’interno degli strati, per proteggere la mummia, venivano aggiunti formule ed amuleti, come l’Ankh, scarabei o il pilastro Djed.

Fondamentale era il riconoscimento del defunto nell’Aldilà. Ecco perché sul volto veniva posta una maschera con i suoi tratti idealizzati. La più famosa, diventata simbolo per eccellenza della civiltà egizia, è quella del Faraone Tutankhamon, d’oro e lapislazzuli.

Replica maschera funeraria di Tutankhamon. Mostra “Tutankhamon: viaggio verso l’eternità” a Firenze
Ph. Elena Cappannella

I rituali durante il “funerale”

Al termine del processo di mummificazione seguiva il funerale vero e proprio con cerimonie e rituali.

Fra questi, il più conosciuto è sicuramente l’Apertura della Bocca, durante il quale un sacerdote, all’entrata della tomba, toccava delicatamente con un particolare strumento gli occhi, il naso, le labbra e le orecchie del defunto per aprirli e farli funzionare nella Duat.

A questo punto si sigillava l’entrata con l’intero corredo funebre, del quale facevano parte, per esempio, gli ushabti. Piccole statuette, in faïence oppure in legno, utili al defunto nella vita ultraterrena, in quanto svolgevano i lavori al suo posto.

Ancora oggi, attraverso varie analisi, gli archeologi studiano le antiche mummie per carpire i segreti dell’imbalsamazione e, ancora oggi, nonostante siano ormai trascorsi migliaia di anni, queste continuano a parlarci e a sorprenderci.


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Fonti

  • www.si.edu
  • http://terradeifaraoni.blogspot.com/
  • www.somewhere.it
  • www.meteoweb.eu

Elena Cappannella

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